Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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22 dicembre 2016

In libreria

Massimo Marzi
Il BeneGiornale
Alla ricerca del Bene da promuovere e diffondere per stare meglio
Armando Editore, Roma, 2016, pp. 304.
Descrizione
Il BeneGiornale è un format radio-televisivo e vuole essere un nuovo modo di "mettere in comune il bene" attraverso la diffusione della parte buona, sana, bella, giusta e positiva del mondo, promuovendo fiducia, ottimismo, etica, moralità, onestà e solidarietà per arginare e contrastare il dilagare delle brutte notizie. Le pagine di questo volume sono una tangibile “anticipazione” di idonei contenuti informativi da trasmettere attraverso futuri BeneGiornali radiotelevisivi. Il libro si propone di riaccendere le speranze sui miglioramenti possibili nel presente e prefigura fiduciose prospettive per il futuro.

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12 dicembre 2016

Fino a che punto conta la nazionalità?


Il recente terremoto che ha colpito il cuore dell'Italia è stato l'ennesimo duro colpo che la popolazione si è ritrovata ad affrontare con le proprie forze. Da mesi ormai intere famiglie sono senza abitazione e vivono come possono nella speranza di poter ricostruire un futuro. La stessa speranza che è insita anche nei numerosissimi migranti che, costretti a scappare da una situazione invivibile, hanno visto nell'Italia una possibilità di ricominciare. Ma è davvero così?
Il problema più evidente pare infatti riuscire, dopo i recenti avvenimenti, a far fronte alle spese non solo a sostegno di queste popolazioni che chiedono asilo, ma anche per la ricostruzione di chi in questo paese ci ha sempre abitato.
C'è dunque una priorità nei confronti dell'uno o dell'altro? È sicuramente una questione tanto delicata quanto spinosa poiché, quando la gravità prende il sopravvento, l'umanità passa in secondo piano ed emerge forse più la nazionalità che la solidarietà nei confronti di chi, per motivi differenti, è in una condizione non poi così diversa.
Maria Eugenia Sabbadini
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11 dicembre 2016

Tra Pinocchio e Gian Burrasca


 
“Ne ammazza più la penna” è un titolo ambivalente che mette il pubblico di fronte ad una serie di brevi letture lasciando quesiti aperti e disparati.
Chi sono le vere vittime della penna?
La penna, forse, ha “ammazzato” i protagonisti delle storie d’Italia riportate negli articoli dei diversi giornalisti che si sono susseguiti nel tempo?
O, forse, sono state più le volte in cui gli stessi giornalisti e scrittori si sono visti soccombere di fronte a quelle notizie e idee da loro portate alla luce e che mai avrebbero dovuto raggiungere l’opinione pubblica nei diversi momenti storici e politici vissuti?
Nel percorso storico intrapreso e riportato da Vercesi, dai tempi della caduta di Napoleone fino agli anni Sessanta del Novecento, attraverso fatti, notizie ed aneddoti, emerge come vi sia stata un’evoluzione del giornalismo e come, allo stesso tempo, ciò che accadeva nel periodo post giacobino si sia mantenuto e ripetuto nel tempo.
Vi sono giornalisti eroici che hanno rischiato la loro stessa esistenza in nome della verità e della loro onestà intellettuale.
Silvio Pellico, durante i dieci anni di detenzione nel duro carcere dello Spielberg, avrebbe scritto un’opera letteraria come “Le mie Prigioni”, senza conoscerne e goderne mai il successo meritato e riconosciuto, a posteriori, dal pubblico. Scontata la pena, una volta tornato libero, decise di tenersi lontano dalla politica, senza mai rinnegare le proprie idee e continuando a coltivare la sua vena giornalistica e letteraria.
Vi sono, quindi, giornalisti che non hanno mai tradito sé stessi.
Giuseppe Mazzini, il quale dedicò la sua intera esistenza al mondo dell’informazione, può essere considerato, nuovamente, un vero eroe. Non bastava impegnarsi; ogni articolo doveva riportare la firma in calce. Ci si doveva esporre in prima persona.
Non sempre, però, si poteva rischiare ed apporre la firma sugli articoli pubblicati.
O meglio, forse ci si sarebbe anche potuti scontrare con i grandi poteri centrali e le estreme dittature, ma a quale prezzo?
Così, soprattutto in tempo di guerra, la maggior parte dei professionisti avrebbe optato per l’autocensura e, così, per l’autoconservazione.
Vi sono i codardi e “fifoni”: quelli che hanno respirato una boccata di libertà con l’uscita dalla scena politica di Napoleone e che, appena sono venuti a conoscenza dell’imminente ritorno di Sua Maestà, ne hanno condiviso la gioia universale sui giornali e con il popolo.
E poi, vi sono i carrieristi, gli ambiziosi o, meglio ancora, gli arrivisti che sanno quando è giunto il tempo di cogliere un’opportunità; quelli avidi di successo e potere e che, per questo, sanno cavalcare l’onda cambiando repentinamente la propria direzione, senza vergogna e senza alcuno scrupolo.
Vercesi, nelle vicende narrate in piccoli paragrafi e scorci di storia, ha la grande capacità di far emergere nel lettore un’immagine del giornalista alquanto complessa.
Emerge l’amante della verità, dell’amor proprio e dell’onestà intellettuale.
Emerge il timoroso che preferisce mettersi al riparo da ogni possibile ritorsione.
E, infine, emerge l’arrampicatore.
Lo sguardo al passato di Vercesi sembra unirsi e mescolarsi con quello dei giorni nostri, facendo diventare il ruolo del giornalista ed i problemi ruotanti intorno alla sua professione quanto mai attuali e in continuità con quelli dei secoli precedenti.
In conclusione, risulta significativo il paragone che lo scrittore utilizza tra due personaggi fantasiosi della letteratura italiana: Pinocchio da un lato e Gian Burrasca dall’altro.
Pinocchio, il burattino che vedrà allungarsi il naso tutte le volte in cui dirà una bugia, già da bambino è abbastanza adulto e responsabile da sapere che il mondo, senza il suo senso di colpa, non sta insieme. Pinocchio è un libro aperto, come appare.
Pinocchio è la vittima predestinata delle autorità.
Gian Burrasca, invece, è bugiardo come il demonio e le sue vittime se ne accorgeranno troppo tardi (quando se ne accorgono). E’ la disperazione dei genitori, è il prototipo di tutti i no global, un kamikaze. Gian Burrasca rappresenta l’estremismo ed è nemico di tutte le autorità.
Pinocchio rappresenta il politically correct; Gian Burrasca è l’outsider.
Di fronte a questi due immaginari, l’Italia non è mai riuscita a scegliere.
Valentina Trinchero


Pier Luigi Vercesi
Ne ammazza più la penna.

Storie d'Italia vissute nelle redazioni dei giornali 
Palermo, Sellerio, 2014, pp. 384

10 dicembre 2016

Musica e poesia: musica è poesia?


                                    
È la domanda che, in varie forme, si sono posti probabilmente in molti quest'anno, quando si è deciso di consegnare il Nobel per la Letteratura al musicista americano Bob Dylan. In molti hanno infatti criticato l'assegnazione della commissione sostenendo che i testi scritti dal cantautore non posseggano la stessa valenza delle poesie normalmente intese; ovvero stampate su carta o qualsiasi altro supporto e fatte per essere lette o declamate. Di conseguenza, sarebbe stato meglio premiare altri autori, poeti “tradizionali”. Ma c'è davvero un motivo, al di là della consuetudine, per cui i testi di un cantautore popolare come Dylan non possano essere considerati poesia?
Della poesia condividono la forma: i versi. In numerosissimi casi si basano su figure retoriche, in particolare metafore: espedienti tipici di qualsiasi genere di poesia. E se ancora permanesse qualche dubbio sicuramente Francesco Ciabattoni, docente di Letteratura Italiana Medievale all'Università di Georgetown, potrebbe ben dissolverlo col suo ultimo libro: La citazione è sintomo d'amore. In quest'opera, che analizza i testi più o meno famosi di alcuni noti cantautori italiani – da De André a Guccini -, il professor Ciabattoni dimostra con un'attenta analisi come non soltanto tali composizioni possano essere considerate poesia esse stesse, ma come siano spesso ispirate ad altri testi letterari. E poesie che contengono riferimenti ad altre poesie « diventano più poesia della poesia stessa ».  Ed anche Bob Dylan è stato influenzato da molti poeti e scrittori da lui conosciuti ed amati, facendo rivivere frammenti del loro spirito attraverso la propria musica, donandogli una nuova personalità: la propria. E tra tutti i poeti, da secoli, vi sono frequenti giochi di riprese e citazioni.
Ma l'elemento della musica, come entra in tutto questo? Ciabattoni afferma che si tratta di un ulteriore arricchimento della dimensione poetica, capace di accompagnare o distorcere con una minima variazione il messaggio trasmesso dalle parole. Intrecciandosi alla lettura piana ed alla lettura metaforica può divenire, quindi, un terzo livello d'interpretazione. E dopotutto, la grande poesia europea difficilmente avrebbe potuto svilupparsi per come la conosciamo oggi se i trovatori provenzali non avessero cantato, girovagando per le strade, le loro romanze al suono del liuto. A seguito delle influenze che ha avuto la sua poesia sui posteri, se fosse vivo, non meriterebbe forse un Nobel anche Arnaut Daniel?

Silvia Marcantoni Taddei



Francesco Ciabattoni
La citazione è sintomo d'amore.
Cantautori italiani e memoria letteraria

Carocci, Roma, 2016



09 dicembre 2016

La grande giovinezza e la piccola saggezza



Il referendum o, come definito da Maurizio Crozza durante la puntata del talk show politico di Giovanni Floris su La7, “referenzium”, a cui sono stati chiamati alle urne gli italiani domenica 4 dicembre, ha evidenziato un grido collettivo di no.
Una sconfitta plateale, al termine della quale Matteo Renzi, secondo le notizie riportate, avrebbe affermato: “Non credevo che mi odiassero così”.
I sondaggi hanno messo in risalto le ragioni che hanno portato a questo risultato politico: in primo luogo, si tratterebbe di un malcontento diffuso tra gli italiani.
Il no è stato un modo, l'unico che gli italiani hanno avuto a disposizione negli ultimi anni, per dire "basta, non ci prendete in giro, per noi non state facendo niente", così interviene su La Repubblica Roberto Saviano.
A votare no sono stati i più giovani e, soprattutto, i giovani del Sud Italia.
Ed ecco che, a tratti, questo giudizio popolare sembra raccontare qualcosa in più; sembra riuscire a collegarsi e a narrarci altre storie, altre “faccende”: personali , da un lato, e socialmente condivise, dall’altro.
Matteo Renzi, il primo ministro più giovane di tutta la storia della Repubblica Italiana, voleva essere l’innovatore e il “rottamatore” di una classe politica immobile ed anziana.
“Attacco alla casta, antiparlamentarismo, mozione degli istinti antipolitici: sono tutti elementi di un inedito populismo del potere che Renzi ha provato a impersonare nel tentativo — o nella tentazione — di disegnarsi un doppio profilo di lotta e di governo, usando le armi dell’antipolitica per combatterla”, scrive Ezio Mauro.
Tutto ciò si è amaramente rivelato un suicidio.
Ed è a questo punto che sembrerebbe emergere uno scontro generazionale e, di conseguenza, il forse necessario incontro, dialogo e appoggio reciproco tra identità che rappresentano ciascuna decenni differenti.
Forse, se Renzi avesse dato maggior ascolto ai consigli provenienti dalla vecchia classe dirigente del suo partito sarebbe riuscito ad inserire la riforma costituzionale in un contesto culturale e conoscitivo differente ed avrebbe ottenuto risultati diversi.
Forse, i giovani avrebbero potuto informarsi ancor più a fondo prima di insorgere e di alzare i toni e sbattere un secco no in faccia ai più esperti adulti.
Forse, se la saggezza ed l'esperienza del vecchio si fosse mescolata alla richiesta di rottamazione degli adulti e alla spregiudicatezza dei giovani, si sarebbe aperto un lungo dialogo, un lungo viaggio di ascolto reciproco che avrebbe portato ad un cambiamento più lento e ponderato, ma anche più stabile.
Ed è all’interno di queste riflessioni che torna vivo nella mente un film di Paolo Sorrentino, uscito nelle sale cinematografiche nel maggio 2015: Youth. La giovinezza.
Il cinema si è più volte occupato, attraverso vari volti e storie, dello scontro e incontro tra diverse generazioni. La stessa storia, tra cui quella del giornalismo, narra della volontà di ribellarsi, con toni spesso anche accesi, dei più giovani nei confronti dei propri discendenti.
Youth. La giovinezza è un film che passeggia, proprio come fanno i due protagonisti ottantenni Fred (Michael Cane) e Mick (Harvey Keitel), che passeggiando cercano se stessi, cercano di ricordare e trovare il perché delle cose.
Ecco, Youth è un film in cerca di un senso e alla ricerca di un buon finale (che non arriva).
Uno dei protagonisti, che recita il ruolo di regista a compimento del suo ultimo film testamento, chiama una delle sue giovani collaboratrici ad osservare il panorama delle Alpi svizzere da un binocolo.
“La vedi quella montagna di fronte?”, chiede il regista.
“Si, sembra vicinissima”, risponde timidamente lei.
“Esatto! Questo è quello che si vede da giovani, si vede tutto vicinissimo. Quello è il futuro.”
Il regista ruota velocemente l’obiettivo del binocolo e, così, capovolge altrettanto rapidamente la visione degli oggetti e, insieme, della vita.
“E adesso… questo è quello che si vede da vecchi, si vede tutto lontanissimo. Quello è il passato.”
Giovane e vecchio sembrano, così, affacciarsi ad uno stesso panorama con vissuti ed esperienze contrapposte. Vicino e lontano, spregiudicatezza e saggezza, passione sfrontata e maturità e, in definitiva, novellino incauto ed anziano accorto sembrano apparire distanti, ma, contemporaneamente, faccia di una stessa medaglia.
Allora l’incontro generazionale, forse spesso non riuscito e impossibile da compiersi per molti aspetti, appare quanto mai inevitabile e necessario, tanto in politica quanto nella vita quotidiana di ognuno di noi.
Valentina Trinchero


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05 dicembre 2016

In libreria

Antonio Pilati 
Rivoluzione digitale e disordine politico
Prefazione di Giulio Sapelli
Guerini &Associati, Milano, 2016, 176 pp.
disponibile anche in formato ebook

Descrizione
Da un quarto di secolo uno straordinario vento di innovazione sta trasformando in tutto il mondo la vita di miliardi di persone. Lo alimentano due processi epocali diversi, eppure legati da affinità e influenze reciproche: uno è la rivoluzione digitale che sovverte economia e società; l’altro è il crollo dell’ordine politico che dalla fine della seconda guerra mondiale dava stabilità alle relazioni internazionali. A prima vista poco o nulla li unisce: uno attiene allo sviluppo della tecnologia, l’altro alle complicate vicissitudini della politica. Tuttavia li lega una stretta dipendenza: il disordine politico di oggi deriva da premesse maturate negli ultimi vent’anni proprio grazie alle innovazioni della tecnologia: l’estensione dei mercati su scala mondiale, il potenziamento delle capacità organizzative, il cambio radicale dell’interazione sociale. In questo libro l’Autore esamina per quali vie, in Occidente, un grande progresso tecnico si è tramutato in una drammatica crisi della politica.
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