Università degli studi di Genova



Blog a cura di Marina Milan, con la partecipazione di studenti, laureandi e laureati dei corsi di Storia del giornalismo e Giornalismo internazionale dell'Università degli studi di Genova (corso di laurea magistrale interdipartimentale in Informazione ed Editoria).

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07 febbraio 2018

Pulitzer, genio del giornalismo


La storia del giornalismo è stata segnata nel corso dei secoli, da eventi e persone eccezionali. Fu un uomo di umili origini a cambiare per sempre il modo di creare ediffondere, notizie. Il suo nome era Joseph Pulitzer. 
Nacque a Makó, in Ungheria, e nel 1847, all’età di diciassette anni dopo aver tentato di arruolarsi prima nell’esercito austriaco e poi in quello napoleonico, arrivò negli Stati Uniti dove entrò a far parte dell’esercito nordista tra le cui fila combatté la guerra di secessione.

Tre anni più tardi, rinunciò ai suoi legami con L’impero austroungarico e divenne cittadino americano. La sua carriera giornalistica ebbe inizio nell’anno 1868, nella città di Saint Louis, dove venne assunto dal "Westliche Post", una testata in lingua tedesca. Grazie alle sue brillanti capacità riuscì, in giovane età, a diventare proprietario di due giornali e a fonderli in un'unica impresa. La sua scalata editoriale era solamente all’inizio.
Nel 1883 acquistò il "New York World" salvandolo dal fallimento e trasformandolo in pochi anni in un quotidiano venduto in oltre 300 mila copie. A causa della sua dedizione maniacale per il lavoro, e ad alcune battaglie legali che lo coinvolsero in prima persona, la sua salute venne compromessa gravemente. Pulitzer perse la vista e per via di disturbi nervosi, fu costretto a ritirarsi dal lavoro ed a passare gran parte dell’anno a bordo del suo yacht o nelle sue residenze. Nonostante la lontananza fisica non smise mai di seguire la vita del suo giornale grazie al lavoro certosino dei suoi segretari particolari, che lo tenevano informato su tutto quello che accadeva, proteggendolo però dai rumori del mondo.
Fu proprio uno dei suoi ultimi assistenti a descrivere in un saggio, gli ultimi otto mesi di vita di quell’uomo sempre alla ricerca di uno stimolo per la sua mente famelica ed in costante movimento. Sin dalle prime pagine della narrazione , grazie all’incredibile capacità descrittiva dell’autore, si può evincere che il signor Pulitzer non fu una persona qualsiasi.
Fra le strade di Amburgo, deliziosamente profumate di autunno, incominciò l’avventura di Alleyne Ireland, che mai si sarebbe aspettato di diventare segretario di uno dei più grandi magnati dell’informazione di quel secolo. Fu un semplice annuncio sul “Times” ad attirare la sua attenzione. Da quel momento, la sua vita cambiò per sempre. Si ritrovò al cospetto di un uomo energico nonostante la malattia invalidante. Il signor Pulitzer fu da subito molto esigente con il nuovo arrivato, cercò di scovare ogni suo punto debole e, mise spesso alla prova la sua pazienza. Dopo le prime difficoltà, Ireland, immerso nel lusso e nel benessere adattò la sua vita per tenere il passo con la fame di cultura, incolmabile del tycoon. In quanto assistente, il suo compito era quello di tenerlo aggiornato grazie all’aiuto innumerevoli articoli di giornale di differente argomentazione, che era solito leggergli durante i pasti o le loro passeggiate. Alle sue dipendenze fece numerosissime di esprimere ed imparò a conoscerlo, oltre il suo carattere particolare e le frequenti crisi di depressione.
Fra i due nacque un rapporto amichevole che contribuì , insieme alla grande quantità di ore che passavano in compagnia, e alla stima reciproca, a rendere quei momenti indelebili nella mente del narratore. A causa della debolezza di Pulitzer, durante la permanenza con la famiglia nella residenza di Bar Harbor, furono costretti a partire per una breve crociera a bordo del Liberty, il panfilo di loro proprietà. Le sue condizioni di salute peggiorarono quasi improvvisamente e, nel pomeriggio del 29 ottobre del 1911, il genio del giornalismo, si spense. 
Un anno più tardi, la Colombia University utilizzò il lascito di J.P per creare la Scuola di studi avanzati di giornalismo. Nel 1917 seguendo le istruzioni date, nacque il Premio Pulitzer per il giornalismo e la lettura. Oggi è ancora il massimo riconoscimento della categoria tanto amata dall’uomo che aveva rivoluzionato il mondo della carta stampata.
Andrea Buffa

Alleyne Ireland
 Joseph Pulitzer. L'uomo che ha cambiato il giornalismo
ADD editore, Torino, 2017,  pp.192.

06 febbraio 2018

Da “quarto potere” a “quarta arma”: la propaganda oggi


“L’appello alle emozioni e alle convinzioni personali, il tutto condito da abili menzogne, è una pratica antica. Antica come la caccia al consenso. Antica come l’istinto propagandistico. […] Saper emozionare e suggestionare, è sempre stata la via maestra di chiunque abbia dovuto convincere una folla.”

C’è sempre stata una netta differenza tra la realtà politica e sociale dell’Italia, e l’immagine che del paese è stata data agli elettori: per questo si parla di Italia “immaginaria”, un paese artificioso, ricostruito, in qualche modo riletto secondo gli intenti e i voleri del politico di turno che nella sua caccia al consenso sceglie come vittime sacrificali talvolta quella rappresentazione del vero, talvolta quell’altra, a seconda del momento storico. E’ questo argomento, fatto di trame politiche e di manipolazione della realtà, che Fabio Martini affronta nel suo “La fabbrica delle verità. l’Italia immaginaria della propaganda da Mussolini a Grillo”, con il tono critico e il linguaggio chiaro del giornalista che vuole condannare e allontanarsi dai termini difficili e insidiosi del “politichese”, come egli stesso lo definisce.
Muovendosi con accurati passi nel passato più difficile del nostro paese, Martini torna all’epoca dell’instaurazione del fascismo, mettendo in luce il modo in cui Benito Mussolini -un giornalista militante, dunque un uomo ben consapevole dell’influenza che la stampa poteva avere sul popolo- abbia ben operato per far sì di avere la prima e anche l’ultima parola su ogni singola informazione che venisse pubblicata su qualunque giornale non solo italiano, ma spesso, per quanto possibile, anche estero. Usare la stampa come strumento di propaganda per creare il mito intorno alla propria persona era stato il primo obiettivo di Mussolini: consapevole che solo con il favore del popolo avrebbe potuto ultimare la sua opera di fascistizzazione dell’Italia. Propaganda, dunque, e non certo veritiera: ma efficace, perché gli esseri umani sono sensibili ai messaggi che ricevono, devono essere in grado di decodificarli per comprenderli, ma se gli unici strumenti che ricevono sono unidirezionali, chiaramente la folla viene portata a scegliere il Barabba del momento.
I nuovi media hanno esasperato e messo maggiormente in luce questo processo, che oggi viene definito con il termine post-truth, ovvero post-verità: quella propaganda, quei messaggi codificati, che mirano ad emozionare, a suggestionare, a “prendere di pancia” gli elettori per condizionarne le scelte, in un circolo che si ripete oggi come si è ripetuto in passato.
Nel suo libro che si pone come stile a metà strada tra un ricco approfondimento giornalistico e una critica illuminata alla società moderna, Martini mette in luce la tendenza dei governi a rispolverare antiche tendenze propagandistiche sfruttando i media maggiormente influenti nell’immaginario collettivo del momento: con il governo della DC dopo le elezioni del 1948, nel pieno del secondo dopoguerra segnato da un disfattismo eclatante e da un rigore morale incredibilmente condizionato dalla chiesa, alle veline di epoca mussoliniana erano stati sostituiti nuovi decreti con i quali i governi si riservavano di intervenire sulle pellicole cinematografiche che mostravano troppi lati “veri” e scomodi di un’Italia da rifare.
Ma l’avvento della televisione produce anche un altro effetto: durante gli anni del terrorismo dopo la strage di piazza Fontana a Milano, la realtà irrompe sulla televisione, e la nuova faccia della politica sarà determinata proprio da coloro che sapranno cogliere questa innovazione e non avranno timore di utilizzarla.
I talk show televisivi nel ventesimo secolo sono ciò che la radio e il cinema erano stati per Mussolini nel ventennio fascista: e Berlusconi cavalca l’onda delle televisioni private ottenendone un successo che richiama coloro che prima di lui avevano saputo sfruttare la tecnologia del momento.
I media subiscono un “circolo” che si ripropone sempre all’alba delle nuove “rivoluzioni” tecnologiche e l’avvento di Grillo e dei Cinque Stelle ai giorni nostri sono l’ennesima dimostrazione, ci dice Martini, della veridicità di questo processo. I sistemi di propaganda, la tentazione di puntare sull’indignazione, sui sentimenti più profondi del popolo, sono sempre gli stessi: cambiano i mezzi con cui questi stessi procedimenti si mettono in moto, ma le persone, e il sistema di informazione nel suo complesso, sono sempre egualmente condizionati da queste verità “costruite” macchinalmente, perché la propaganda più efficace, chiarisce l’autore, “agisce in modo occulto, e parla all’inconscio.
Micaela Ferraro

Fabio Martini
La fabbrica delle verità 
L’Italia immaginaria della propaganda da Mussolini a Grillo 
Marsilio editori, Venezia, 2017.
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05 febbraio 2018

Calcio e letteratura


Siamo abituati al giorno d’oggi ad associare la parola calcio non solo all’evento sportivo, ma a tutto quello che ruota attorno ad esso: soldi, marketing, visibilità, social network e soprattutto violenza.

Il calcio è visto ormai come uno sport deviante, senza principi etici, solo un’accozzaglia di giocatori che guardano prima al loro portafoglio che all’amore per il gioco.

Sergio Giuntini con questo libro vuole invece raccontare come il calcio sia, volente o nolente, lo Sport in Italia con la “s” maiuscola e quanto la comunicazione sportiva abbia influenzato il modo di vederlo.

Un’analisi profonda, lunga più di un secolo, che si trasforma in un memento per le persone che oggi banalizzano il calcio in una sola manifestazione sportiva.

Sfogliando le pagine di questo libro si ha la percezione di come il calcio si sia amalgamato nelle pieghe della società, come l’abbia accompagnata nel suo sviluppo e di come sia stato veicolo per manifestare una superiorità politica, come accadde durante il regime fascista.

Un libro nuovo quello di Giuntini. Mai nessuno aveva raccolto il meglio e il peggio della letteratura calcistica italiana in un solo libro, riuscendo a raccontare i fatti senza cadere, come spesso succede nella narrazione sportiva, in retorica inutile.

Un viaggio di un secolo che ha raccolto non solo la prorompente analisi di Gianni Brera, ma ha anche fatto scoprire analisi calcistiche di autori particolari che hanno aggiunto una visione diversa del calcio.

Nonostante il calcio sia lo sport predominante nella penisola italiana, Giuntini inizia l’excursus sulla comunicazione sportiva ovviamente dall’estero, citando giornali illustri come il Times che sempre più inseriva contenuti sportivi nelle sue pagine.

In Italia alla fine dell’800 il calcio era considerato uno sport di nicchia, come si legge nelle pagine del libro di Giuntini, dato che sulle pagine dei quotidiani sportivi il ciclismo era quello che dominava la scena.

Quello che rende unico questo libro è il modo minuzioso di far entrare il calcio all’interno della narrazione, anche analizzando il cambiamento del lessico che negli anni ha avuto un distacco importante dal mondo anglofono, precursore tra tutti Luigi Bosisio che modificò il titolo della rubrica sulla Gazzetta dello Sport da “Foot-Ball” a “Calcio”.

Non solo giornalismo sportivo, ma anche ogni singolo aspetto che ha riguardato la comunicazione sportiva italiana, come la nascita delle riviste e il ruolo istituzionale che si voleva ritagliare a questo sport. I “comunicati ufficiali” e i “regolamenti e gli statuti” Giuntini li inserisce nella letteratura del calcio proprio perché verranno inseriti nelle riviste quali il "Guerin Sportivo" per esempio, proprio per sottolineare come la comunicazione sportiva non si limitasse al mero racconto, ma anche ad un ruolo istituzionale ed educativo che si voleva ritagliare in modo sempre più importante.

Una caratteristica di questo libro è l’inserimento all’inizio di ogni “capitolo” di frasi di personaggi illustri. Ce n’è una su tutte che risalta a mio parere e che descrive in modo perfetto quanto la politica abbia influenzato il racconto del calcio e il modo di insegnare a guardarlo e forse lo sport in generale. La frase emblematica è stata pronunciata da Jorge Valdano, ripresa da un concetto del suo mister Menotti, c.t dell’Argentina di Maradona, che rimarca il dualismo tra sinistra e destra: un calcio ricreativo e d’avanguardia il primo, un calcio conservatore e duro il secondo; una frase che non descrive direttamente quello che avverrà durante il regime fascista, anche perché fu pronunciata quasi 50 anni dopo, ma aiuta a identificare quanto la destra e il suo pragmatismo abbiano aiutato in un certo modo allo sviluppo della letteratura calcistica.

Sezione importante infatti del libro è quella dedicata al modo in cui è stato usato il calcio per strumentalizzare anche la sfera politica. L’immagine è stata la grande rivoluzione: nascono infatti i primi settimanali illustrati come La Domenica Sportiva.

Una cosa che Giuntini è riuscito a fare per rendere questo libro un gioiello è la continua contrapposizione tra i vari autori citati: la sezione dedicata alla vera e propria letteratura calcistica di regime mette a confronto per esempio autori antitetici l’uno all’altro come Gabriele D’Annunzio, il primo a raccontare lo sport in modo differente e in poesia e Filippo Tommaso Marinetti anch’esso narratore di uno sport visto come culto e azione per il progresso della società.

La narrativa fascista è sconfinata e nel libro la parte dedicate a questa è davvero consistente, anche se la principale attività della comunicazione fascista fu utilizzata a fini propagandistici.

La narrazione sportiva ha coinvolto anche giornalisti che non propriamente nascevano in quell’ambito e il ricordo del Grande Torino in questo libro avviene tramite le penne di Dino Buzzati e Indro Montanelli per il Corriere della Sera con due articoli-gioiello, due affreschi per celebrare la squadra italiana più forte di sempre.

La Storia della narrazione sportiva però solo ad uno può essere attribuita, di certo il più grande di sempre: Gianni Brera. La grandezza del personaggio, quello che ha dato allo sport, la sua critica graffiante, il suo linguaggio e i suoi neologismi che accompagnano ancora oggi tutti noi traspaiono perfettamente in questo libro. Un’istantanea perfetta per godere di quello che è stato il modello per chiunque voglia fare il giornalista sportivo.

La cosa che mi ha colpito in modo positivo di questo libro è la sorpresa che mi ha suscitato nel vedere citati autori che ignoravo fossero compatibili con il mondo calcistico. Uno di questi è Pasolini, che grazie alla penna di Giuntini ho scoperto essere un amante viscerale del calcio. Non solo poesia per lui, ma un vero e proprio coinvolgimento personale, giocatore prima, tifosissimo del Bologna e successivamente poeta del calcio. Considerava il calcio un “fenomeno di costume importante” e il capocannoniere di un campionato di calcio come “il miglior poeta dell’anno”. Spunti interessantissimi, che hanno fatto crescere in me la voglia di scoprire questo lato di Pasolini a me oscuro.

Dalla letteratura alta di Brera e Pasolini, nella parte finale del libro Giuntini si concentra sul cambiamento. Non per forza un cambiamento deve essere proiettato in positivo ed è quello che si percepisce nelle pagine che si occupano del fenomeno Biscardi: la voglia di calcio negli anni ’80 era ormai spropositata, lontana anni luce dall’inizio del secolo e l’autore racconta della involuzione della narrazione calcistica.

Il “salotto” di Biscardi con Il processo del lunedì aveva portato ad una comunicazione bassa, sgrammaticata, spesso scimmiottata da ospiti che con il mondo dello sport non avevano propriamente a che fare. È diventato un simbolo, ha segnato una linea di demarcazione netta e precisa tra quello che è stata prima e quello che è venuto dopo.

La goliardia e il chiasso sono l’emblema di quel tipo di comunicazione sportiva che ancora oggi aleggia sopra di noi, anche se come sottolinea Giuntini, la letteratura del calcio deve marginare questa situazione che in un certo senso ha portato alla rappresentazione della  goliardia del calcio anche nel cinema con i celeberrimi Lino Banfi e Diego Abatantuono nei loro film più celebri.

Un libro che mi ha stupito in tutto, sia nel modo di raccontare snello e veloce nonostante sia pieno di nozioni e di cenni storici, sia nell’efficacia nel mandare messaggi importanti alla società odierna raccontando quanto sia stata importante la cultura sportiva nello sviluppo del nostro paese. 

Simone Massari

 

Sergio Giuntini
Calcio e letteratura in Italia (1892-2015)
Biblion, Milano, 2017.
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04 febbraio 2018

Così andava il giornalismo

Sentivo in me la reazione di chi è stato educato al giornalismo in un certo modo: non si nasconde niente.” Gianni Minà, giornalista da più di cinquant’anni, ha mosso i primi passi all’interno di Tuttosport per approdare poi alla RAI; nel corso della sua carriera ha seguito e documentato otto mondiali di calcio e sette olimpiadi sportive, ha incontrato e intervistato grandi figure artistiche, sportive e politiche della storia contemporanea come Muhammed Ali, Fidel Castro, Chico Buarque, Lula da Silva, il subcomandante Marcos, Hugo Chávez. Ma più di tutto il suo lavoro si è caratterizzato per un grande amore, accompagnato da diversi documentari e libri, per l’America Latina. Ora, insieme all’attivista Giuseppe De Marzo, nella conversazione-intervista lunga 240 pagine dal titolo Così va il mondo. Conversazioni su giornalismo, potere e libertà edita da Edizioni Gruppo Abele per la collana Palafitte, ci fornisce un nuovo punto di vista sul mondo e sulle dinamiche che lo animano. Attraverso le sue esperienze come giornalista e reporter ma soprattutto come uomo, Gianni Minà ci porta all’interno di un universo, quello dei paesi del Centro e Sud America, ricco di storia, di cultura, di ideali politici e rivoluzioni sociali vissute da un popolo pronto a non arrendersi, un universo ancora imprigionato nella gabbia degli interessi del neoliberalismo e di un sistema economico capitalistico ormai antiquato ed anacronistico. Grazie alla musica conosce prima il Brasile all’inizio degli anni Settanta, durante gli anni più duri della dittatura militare, e scopre il dramma dell’ingiustizia sociale in una parte del mondo priva delle logiche occidentali; poi l’Argentina, nel vivo della Operacion Condor e della crudele realtà dei desaparecidos; nel 1987 e nel 1990 incontra e intervista Fidel Castro, protagonista indiscusso del Novecento, artefice della Rivoluzione cubana; nel 1996 riesce ad intervistare il subcomandante Marcos, portavoce dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale e della resistenza nella regione del Chiapas in Messico. Il racconto però non si dimentica di ricordare come gli Stati Uniti, protagonisti indiscussi del contesto globale dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi, abbiano avuto il ruolo di regista negli eventi passati e recenti di una zona del mondo in cui la democrazia ha faticato e tuttora fatica ad affermarsi, in cui le lotte socialiste hanno prodotto risultati ben diversi rispetto all’Occidente e in cui la lotta per il diritto alla vita non si è mai esaurita. Gli stessi Stati Uniti che oggi sembrano essere lo specchio di una crisi che vede l’implosione di un’economia basata sugli interessi delle grandi multinazionali e sul consumismo e la sempre più evidente collisione tra libertà e giustizia sociale, crisi che si personifica nel neoeletto Presidente degli USA, Donald Trump che, come sostiene Minà, “rappresenta perfettamente questo momento di grande mediocrità della civiltà occidentale”. Civiltà occidentale a cui appartiene anche l’Italia che dagli anni Sessanta, con la “strategia della tensione” e l’allarme terrorismo, ad oggi, con le stime più basse di partecipazione politica e governi di sinistra interessati solo a favorire il mercato capitalistico, ha attraversato decenni di decadimento con cui la cittadinanza sembra non aver fatto ancora i conti. Da queste esperienze prendono spunto le critiche di Minà al sistema di informazione (o meglio disinformazione, mancata informazione, informazione manipolata) italiano ed internazionale che ha dimenticato il proprio scopo, servire la cittadinanza e fare servizio sociale. Il giornalismo ha chiuso gli occhi di fronte agli avvenimenti, per convenienza o per obbedienza, per non tradire un modello di civiltà all’apparenza liberale e democratico che non accettava alternative, e questo, secondo gli autori di Così va il mondo, ha creato un clima di paura, menefreghismo, cattiveria, mancanza di giudizio: un clima da cui uscire solo attraverso un radicale cambiamento di rotta. Grazie a questa intervista Minà ci fornisce una nuova chiave interpretativa della storia mondiale e ci aiuta a comprendere i nuovi fenomeni geopolitici, partendo dal terrorismo ideologico e dai flussi migratori verso l’Europa, ma anche, e soprattutto, quale dovrebbe essere il ruolo del giornalismo e dei giornalisti nel nuovo scenario globale economico, politico e sociale. Un’intervista, in definitiva, che ha molto da dire, che riflette e fa riflettere sull’attualità, sul presente e sul futuro del mondo occidentale e non.
Alessia Malcaus

Così va il mondo. Conversazioni su giornalismo, potere e libertà
di Gianni Minà con Giuseppe De Marzo
Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017, pp. 240.
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03 febbraio 2018

Grazia Cherchi: matrona della Repubblica delle Lettere

Recensire l’elegante raccolta degli scritti di Grazia Cherchi con lo spirito irrimediabilmente segnato dalle saette, stilisticamente fulgide e sardonicamente impietose, con cui si abbatte sui cattivi recensori dal cuore di servo, significa puntarsi una pistola alla tempia e giocare alla roulette russa a ogni parola vergata. È un rischio che tuttavia deve essere corso, giacché, al prezzo, tutto eventuale, di un solo recensore, magari incosciente, ma di comprovata buona volontà, i lettori appassionati di ieri e di oggi potranno forse scoprire o riscoprire un tesoro da sfogliare e un’amica da consultare. La raccolta, a cura di Roberto Rossi, è una selezione di articoli, recensioni e interviste che percorrono il quindicinale lavoro che la Cherchi (1937-1995), una matrona della Repubblica delle Lettere, scrittrice, giornalista e -soprattutto! - curatrice editoriale, ha svolto per quotidiani, periodici e riviste. Questi sono presentati in primis secondo argomento e quindi cronologicamente. Una breve collezione di J’Accuse contro il mondo editoriale, garbatamente spassosi, deliziosamente crudi, e tragicamente sinceri, apparsi su Panorama e l’Unità tra il 1985 e il 1992, costituiscono la gustosa Ouverture dell’opera; le recensioni competenti, sintetiche e briose, nell’elogio e nella stroncatura, il suo corpo, agile e levigato sino al dettaglio ;  le interviste e i ritratti il drammatico finale, dove numerosi – ma sempre pochissimi, per la Cherchi- tra i migliori autori del dopoguerra (tra gli altri Benni, Fortini, Cederna, Arbosini, oltre al “giovane” Michele Serra), rispondendo a quesiti personali o stimolanti, come se si fossero accordati tra loro, paiono unanimi nel descrivere un paese, l’Italia, dove l’intellettuale è, talvolta felicemente, solo, sono più quelli che scrivono che quelli che leggono, e gli ideali social-comunisti, di cui pure la Cherchi stessa era fiero alfiere, sono naufragati. Sorvolando sulla prima parte, che andrebbe letta da chiunque non abbia timore di sorridere ininterrotto per una buona mezz’ora, sulla dimensione fantozziana dell’editoria nostrana, la Cherchi colpisce per come nelle sue recensioni riesca a combinare un eloquio elevato e un approccio colloquiale, quasi intimistico. In ogni “pezzo” in poche righe alle critiche amalgama citazioni forbite a simpatici aneddoti dal sapore sconsolato a giudizi sferzanti sulla società. Stronca spesso, più spesso e più volentieri presenta autori che “devono” essere letti. I suoi criteri di accettabilità sono vertiginosamente alti, come se i libri consigliati dovessero essere per lettori e lettrici donne e uomini ideali, “per la vita”, belli, buoni, colti, e svegli, e non si potessero tollerare liaison con i midcult, l’equivale delle bionde fascinose e un po' oche, o dei Marcantoni senza cervello. Nelle interviste, l’arguzia, l’intelligenza, la vivacità, della Cherchi, fungono da specchio a quelle dei suoi intervistati, i quali sono quasi tutti, nient’affatto incidentalmente, suoi fraterni sodali, e illuminano di suggestivi chiaroscuri la luce inevitabilmente vintage che permea il libro – si chiede sempre se si scrive a mano, con la macchina di scrivere (!) o col computer. La Cherchi riteneva che una recensione dovesse sempre contenere almeno una citazione del libro in questione, e nell’esprimere ciò cita a sua volta Geno Pampaloni. E, “oltre alle citazioni”, le sembrava “altrettanto indispensabile informare sinteticamente (lo spazio è quello che è) sul contenuto del libro, trama o plot che dir si voglia (la sua assenza dà adito ai più biechi sospetti: il libro è stato veramente letto da cima a fondo?), Cui seguirà, ma già dovrebbe emergere dalla trama inframezzata di citazioni, il giudizio, che sarà, inevitabilmente, impressionistico, dettato dall’intuito, dal gusto e dall’esperienza: cos’altro mai potrebbe essere?
Il lettore attento si sarà accorto che qui si è fatto l’esatto contrario.
Federico Burlando

Grazia Cherchi
Scompartimento per lettori e taciturni
Articoli, ritratti, interviste

Minimum fax, Roma, 2017, pp. 345.
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02 febbraio 2018

Le minacce della proliferazione tecnologica

Per procedere alla disamina di questo volume è necessario partire da un concetto fondamentale: la disinformazione è legata all’uso (e abuso) del potere e al mantenimento di quest’ultimo. Lo sappiamo non solo grazie alla lettura delle innumerevoli opere distopiche del Novecento – da George Orwell ad Aldous Huxley, passando per Karin Boye e Margaret Atwood – ma soprattutto guardando alla nostra storia e al nostro presente. I romanzi distopici infatti, sono solitamente ambientati in un futuro lontano e poco auspicabile, ma noi sappiamo bene di non avere alcun bisogno di rivolgere il nostro sguardo a mondi così distanti per renderci conto degli effetti della manipolazione, intesa come distorsione della realtà volta al raggiungimento dei propri interessi. Le tecniche di manipolazione e persuasione hanno subìto un notevole potenziamento nell’era del cyber-power, caratterizzata dallo sviluppo convulso dei nuovi media come Facebook e social network affini, blog e siti web di ogni sorta. Questa “proliferazione tecnologica” – nonostante i risvolti incredibilmente positivi – ha prodotto (e continua a produrre) conseguenze negative, come la maggiore vulnerabilità dei singoli e dei governi alla disinformazione. Lo scopo dell’opera – che si presenta come una raccolta degli interventi presentati durante il convegno omonimo tenutosi nel 2015 a Roma – è proprio quello di analizzare l’evoluzione della disinformazione nell’era tecnologica per trovare strategie adatte a contrastare la manipolazione delle percezioni dell’opinione pubblica. Prima di discutere eventuali soluzioni, è necessario fare un passo indietro e capire cosa si intende per disinformazione. Lo stesso Germani, coordinatore scientifico del convegno, spiega la differenza tra deception, misrepresentation e disinformazione. La deception riguarda la disinformazione esclusivamente nell’ambito militare, diplomatico e dell’intelligence. Con misrepresentation si intende la malainformazione non intenzionale, diffusa a causa della superficialità e dell’ignoranza. La disinformazione, invece, è un’azione pianificata e deliberatamente ostile, che persegue un fine occulto attraverso la diffusione di notizie false o distorte. Proprio per questa sua natura programmatica, la disinformazione – ci spiega François Géré nel suo intervento – si distingue dalle cosiddette hoax, le “bufale” diffuse in rete da singoli o piccoli gruppi, e dalla propaganda, in quanto quest’ultima è palese. La difficoltà di trovare delle soluzioni definitive da parte degli Stati e dei loro servizi di intelligence risiede proprio nella struttura rigida della disinformazione. Un altro elemento da tenere in considerazione riguarda il fatto che in Italia - nonostante i notevoli passi avanti fatti nell’ultimo periodo   circa il dibattito sulle fake news - si discute ancora poco di disinformazione, sicuramente meno che in altri paesi come la Cina e la Russia, i quali fanno largo uso della cosiddetta information warfare, basata sul controllo dell’informazione con l’obiettivo di ottenere un vantaggio, soprattutto dal punto di vista militare. Indubbiamente questi due paesi hanno una storia differente rispetto alla nostra, basti pensare alla dezinformacija sovietica durante la Guerra Fredda, utilizzata ancora oggi dal governo Putin sia in politica estera, per screditare l’Occidente, sia in politica interna, per mantenere la stabilità del regime. Sebbene il dibattito sia (ancora) carente, la disinformazione è una minaccia reale in Italia e si presenta sotto molteplici forme, dalle campagne di disinformazione economica e finanziaria al depistaggio di indagini giudiziarie da parte di organizzazioni criminali, prima fra tutte la mafia. A questo punto sorge spontanea una domanda. Se, come abbiamo visto, la disinformazione è un’arma utilizzata sia dagli Stati che da attori non-statuali leciti e illeciti (come vengono definiti da Germani), ossia la criminalità organizzata e i gruppi terroristici, allora quali sono le soluzioni definitive al problema? Cosa possiamo fare concretamente? Ciò che colpisce, durante la lettura delle diverse presentazioni, è proprio la difficoltà nel trovare rimedi efficaci. Francesco Vitali, autorità garante per la protezione dei dati personali, affronta la questione dei big data, cioè quell’insieme di tecnologie utilizzate per estrapolare un’enorme quantità di dati al fine di analizzare determinati fenomeni e prevedere quelli futuri. Il problema, come spiega lo stesso Vitali, è che le capacità predittive di tali tecnologie possono rappresentare un rischio per la democrazia, in quanto il loro uso implica una mancanza di trasparenza. Inoltre, a parer mio, un’analisi quantitativa basata su dati non è sufficiente per comprendere e risolvere un tale fenomeno nella sua globalità.                                                            
Una soluzione più consona, seppur di difficile applicazione, potrebbe essere quella proposta da François Géré, presidente dell’Institut Français d’Analyse Stratégique. Secondo Géré per contrastare la disinformazione si può agire in tre modi. Innanzitutto, si può cercare di ristabilire la verità, anche se di solito è troppo tardi. Oppure, si può attuare una contro-disinformazione, cioè una disinformazione in senso opposto, ma anche qui la difficoltà sta nel sincerarsi che ci sia stata effettivamente un’azione disinformativa. Un’altra via potrebbe essere quella della prevenzione, della previsione delle mosse dell’avversario, ma per fare in modo che funzioni dobbiamo conoscere perfettamente gli strumenti utilizzati dai nostri “rivali” e impegnarci ad usarne altri altrettanto efficaci. Sicuramente la questione non può avere una risoluzione immediata, anche a causa del continuo evolversi della tecnologia, con il quale è complicato tenere il passo. Il libro, che si propone come un compendio di interventi di analisti ed esperti di istituzioni civili e militari, ha in quanto tale un taglio molto tecnico, che rischia di lasciare spaesato il lettore di fronte a circostanze già così complesse. L’idea che sta alla base del convegno però, è ottima e indiscutibile perché, come detto in precedenza, in Italia c’è bisogno di avviare un dibattito di questo tipo in modo puntuale e approfondito. Detto questo, credo che il vero cambiamento debba partire da ognuno di noi, singolarmente, attraverso l’esercizio del nostro spirito critico e della nostra capacità di discernimento. Non sarà forse questa la vera utopia?
Francesca Lasi

Disinformazione e manipolazione delle percezioni. 
Una nuova minaccia al sistema-paese
a cura di Luigi Sergio Germani
Eurilink, Roma, 2017, pp. 154.

01 febbraio 2018

John Steinbeck alla guerra

Se c'è una cosa che si può certamente affermare su John Steinbeck, tra gli autori più prolifici della cosiddetta lost generation americana, è che non sia mai stato un narratore scontato. Lo si può intuire soltanto pensando ad una delle sue ultime opere, Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri, uscita postuma nel 1976, così diversa per contenuti e stile dallo Steinbeck lucido, ottimista ed ermetico che tutti conoscevano. Ebbene, anche questa raccolta di lettere che il letterato americano raccolse per il quotidiano "Newsday" come inviato sul campo durante il lungo conflitto vietnamita, dal dicembre 1966 al maggio 1967, presentano un aspetto tutt'altro che banale. L'impressione però è che questa volta lo stesso autore / narratore fosse particolarmente confuso riguardo alla guerra in Vietnam, un conflitto unico nella storia per geografia e andamento, come lo stesso Steinbeck non mancò di notare a pochi giorni dal suo sbarco nel Sud Est asiatico. Se infatti nei primi dispacci, e per gran parte dell'intera opera, lo scrittore, pur nella sua analisi estremamente lucida, fa tutto il possibile per supportare e giustificare l'intervento militare statunitense (a differenza della quasi totalità della letteratura a lui contemporanea e/o futura), nelle ultime lettere, ed in particolare dopo il ritorno in patria, Steinbeck sembra nutrire profondi dubbi sulla bontà di un conflitto tanto lungo quanto dispendioso. D'altronde, come nota l'autore, a differenza del secondo conflitto mondiale (di cui Steinbeck fu giornalista inviato in Europa), la guerra del Vietnam è una guerra senza confini ed eserciti precisi, "una guerra di sensi, senza fronti e senza retrovie", dove il discrimine tra libertà e occupazione, tra omicidio e missione militare, è davvero più labile che ma. In un racconto tanto indecifrabile sia per lo stesso narratore che per i lettori, pochi aspetti mantengono una propria persistenza e continuità: la critica spietata di Steinbeck per i metodi e per le subdole strategie attuati dai Vietcong alle spese della popolazione rurale del Sud (con buona pace delle tante critiche che spesso hanno bollato Steinbeck come un "simpatizzante dei rossi"), tuttavia non fomentate da una pura contrapposizione ideologica (vedasi la brillante critica alla diplomazia americana nell'insistere a definire Taiwan "la vera Cina" pur di non riconoscere Mao), ma al limite velate da quel patriottismo quasi connaturato che nasce sul campo di battaglia (a tale proposito, vedasi la spietata denuncia all'uso da parte dei comunisti di bambini nelle missioni di guerra, salvo poi proporre subito dopo allo stesso Vietnam di fare lo stesso a parti invertite). Un'altra costante del racconto è la curiosità mostrata da Steinbeck in ogni pagina di questa nuova avventura ("Non guarirò mai da questa curiosità esagitata. Mi sento ancora come quando da bambino andavo da Salinas a San Francisco, addirittura a cento miglia di distanza!"), una curiosità ancor più ammirabile se consideriamo che quando Steinbeck scrisse le lettere aveva sulle spalle già 64 anni di vita, di cui sei mesi in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, decine di romanzi pluri-premiati, e perfino un Nobel per la letteratura. L'atteggiamento mostrato dall'autore, che tanto gradevolmente traspare dalla sue parole, è a mio parere un vero e proprio manifesto del giornalismo. Una cronaca lucida, sincera, ma allo stesso tempo appassionata, che non manca di aneddoti personali e talvolta ridicoli, alternati a riflessioni geopolitiche assolutamente non scontate. A tratti lo Steineck giornalista di guerra appare tale e quale a quello conosciuto nel 1943, incanalato tra il New Deal rooseveltiano e il nazionalismo, esaltato dalla descrizione delle armi e dei mezzi militari, critico verso il pacifismo ipocrita e fine a se stesso, abile nel definire in modo spietato e incorruttibile il "nemico". In altri tratti invece prevale lo Steinbeck romanziere, quello difensore dei contadini vietnamiti e thailandesi (così simili per certi versi agli okies, protagonisti di Furore), e capace di regalare al pubblico del Newsday personaggi che sembrano davvero resuscitati dalle pagine di un romanzo, come il Venerabile Giac, il maestro di judo pacifista che insegna la quiete interiore ai bambini di Saigon, o il generale di polizia thailandese che non riesce a capire come Playboy sia diventato "la bibbia dei giovani americani". In particolare nelle ultime lettere, dedicate alla sua permanenza in Laos ed in Giappone prima del rimpatrio, l'autore riesce davvero a fondere questi due mestieri, il giornalista ed il romanziere, in un connubio di entusiasmo, capacità comprensiva, esperienza e persino romanticismo, che per un poco fanno vedere anche gli aspetti più umani di un conflitto definito disumano da tutta la critica del tempo, da Bob Dylan a Norman Mailer, passando per John Lennon e Noam Chomsky. A prescindere dall'aspetto contenutistico, l'opera, uscita postuma (Steinbeck morirà nel 1968, appena un anno dopo l'esperienza vietnamita), può essere vista come un lascito testuale del romanziere. La storia ci ha consegnato tanti John Steinbeck: lo Steinbeck sognatore californiano, lo Steinbeck socialista dopo la crisi di Wall Street, lo Steinbeck pacifista, lo Steinbeck ospite di Roosevelt alla Casa Bianca, inviato di guerra, nazionalista, comunista e anti-comunista. In fin dei conti John Steinbeck ebbe la grande capacità di vedere e interpretare la realtà dei suoi tempi, una realtà mai univoca e che quindi mai può essere letta in bianco e nero. Proprio per questo motivo mi piacerebbe chiudere questa scheda di lettura con la piccola digressione che l'autore si concede nella lettera del 3 febbraio 1967, dove scrive la sua interpretazione sull'effettivo valore della guerra:
"Per me tutte le guerre sono cattive. Non esistono buone guerre e non credo che esista un soldato pronto a darmi torto. Però non riesco a capire quelli che credono di essere innocenti solo perché distolgono lo sguardo e girano le spalle: quelli che distolgono lo sguardo hanno forse scoperto che una guerra è buona e una è cattiva? Masterson, il soldato semplice di marina che guada le paludi pullulanti di sanguisughe, la famiglia di contadini delle risaie che si rintana terrorizzata nella sua capanna minata all'estremità di un sentiero pieno di trappole esplosive, io che ho visto questa guerra da vicino: tutti saremmo d'accordo nel dire che è tutto cattivo. Ma tutto il male va eliminato in una volta sola, altrimenti continuerà ad esistere come è sempre esistito".
Francesco Massardo


John Steinbeck
Vietnam in guerra: dispacci dal fronte
a cura di T.E. Barden
Libreria editrice goriziana, Gorizia, 2017.
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